Grand Budapest Hotel

Occhi puntati sul cinema del grande regista statunitense Wesley Wales Anderson

Grand Budapest Hotel

Ritorna la rubrica Sfaccettature di Cultura, questo terzo venerdì del mese la sfaccettatura scelta è il cinema.

Parliamo in un regista che sicuramente con il suo stile eccentrico è riuscito a rendere i suoi lungometraggi e cortometraggi riconoscibili e ricercati, ma soprattutto tanto amati dal pubblico e dalla critica: parliamo del regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense Wesley Wales Anderson, meglio conosciuto con il diminutivo di Wes.

Nato in Houston in Texas, già in giovane età comincia a destreggiarsi e cimentarsi con la regia tenendo in mano all’età di otto anni la videocamera del padre. 

Dopo gli studi e la laurea in Filosofia, decide di intraprende la carriera di regista che inizia ufficialmente nel 1996 con il suo primo cortometraggio Bottle Rocket. Sin da subito i suoi film sembrano avere un tratto distintivo. Influenzato da grandi registi come Woody Allen, Martin Scorzese, Roman Polanski riesce a creare un suo stile distintivo che si converge nelle trame e nelle caratteristiche dei personaggi. Uno stile tanto particolare per il quale verrà coniato il termine “andersiano”.

Nello stile andersiano rientrano dei tratti caratteristici individuabili sia nelle trame sia nella costruzione dei personaggi. Le storie, infatti, spesso sono centrate sul dolore o la perdita dell’innocenza, sulle rivalità dei personaggi e le loro relazioni interpersonali stravaganti, sicuramente eccettuate dalle loro caratteristiche caricaturali. Senza dubbio i suoi sono dei personaggi che fuoriescono dall’ottica dell’eroe tipico del cinema americano, poiché in realtà le loro storie complesse sono colme di traumi e disavventure che li hanno profondamente segnati. Seppur portatori di fardelli e di profondo disagio, sono dei personaggi caparbi, ambiziosi e dotati di purezza d’animo, molto spesso, infatti, i film di Anderson raccontano una profonda moralità.

Le caricature andersiane si armonizzano con la fotografia per le sue inquadrature a rapporti d’aspetto largo, con l’utilizzo di ottiche grandangolari che forniscono un ampio campo visivo. Le inquadrature inusuali cercano di mettere in luce gli oggetti e degli elementi caratteristici. Un tocco di stile che accompagna lo spettatore ad immergersi completamente. Nelle sceneggiature è possibile riscontrare una certa simmetria e una palette di colori a tinte calde e vivaci che caratterizza ogni suo film.

Grand Budapest Hotel

Grand Budapest Hotel fa il suo esordio nel 2014. Indubbiamente è uno dei film che più a lasciato il segno tra quelli di Wes Anderson, tanto da essere scelto come film d’apertura nella 64 edizione del Festival Internazionale del cinema di Berlino nel quale si è aggiudicato il premio alla giuria. Collezionista in realtà di tanti premi, è stato nominato ai Premi Oscar in nove diverse categorie e risultato vincitore di ben quattro.

Trama

Il sipario si apre con una scena in cui il nostro narratore che fin da subito si presenta parlando di sé in prima persona, rompendo così le barriere illusorie di una narrazione in terza persona. Sin da subito lo spettatore viene messo in guardia dalle convinzioni legate al narratore: non sempre colui che racconta ha immaginato tutto, anzi il più delle volte le storie narrate sono ricavate da esperienze personali, o come in questo caso sono tratte da storie narrate da terzi e poi raccontate da chi le ha ascoltate.

Con un cambio repentino di scena, tipo di Anderson, ci troviamo catapultati al 1968 tra le montagne dell’Europa in cui si erge il Gran Budapest Hotel: un albergo ormai vecchio e in rovina che però porta con sé una fama di prestigio. È proprio in questo momento – tra i silenzi e la solitudine – che il nostro scrittore-narratore incontra Zero Moustafa, attuale padrone del Grand Budapest Hotel. Moustafa – desideroso di realizzare le brame di sapere dell’ospite – decide di organizzare una cena in cui racconterà, al nostro narratore, i tempi d’oro del Grand Budapest.

Improvvisamente, come se avessimo attraversato un vortice spazio-temporale, siamo al 1932 e il Gran Budapest Hotel è nel fiore dei suoi anni e del suo massimo splendore. Alle redini di tutto c’è un personaggio al quanto egocentrico e pedante: Mesier Gustave H. Gustave è un uomo raffinato e amante di poesie, dalle abitudini e dai rituali un può eccentrici e discutibili, come le relazioni che istaura con varie ospiti: vecchie matrone dai portafogli generosi che sembrano alloggiare al Grand Budapest solo per lui.

Gustave manda avanti l’hotel con una grazia e una diligenza davvero ammirevole. La tranquillità inusuale nei film di Anderson, viene, infatti, interrotta: un giorno prima di partire una delle sue amanti di Gustave, Madame D, gli rivela di aver un brutto presentimento di morte, ma lui non da tanto importanza a quelle parole e cerca di rassicurarla. Quello che però non si aspetta è che, da lì a pochi giorni, quello di Madame si dimostrerà un vero e proprio presagio.

Nel frattempo Gustave conosce il nuovo garzoncello dell’Hotel, Zero Moustafa, che prende dopo un brevissimo colloquio sotto la sua ala, come Lobby boy. Dopo la visita alla defunta Madame D e il lascito di uno dei quadri più famosi e unici in tutto il mondo, “Il ragazzo con mela”, iniziano le innumerevoli disavventure nel quale verrà coinvolto Gustave. Infatti, perseguitato dalla sete di vendetta dal figlio Dimitri di Madame D, avrà più volte uno stretto contatto con la morte, dalle cui braccia gelide riuscirà a salvarsi un paio di volte. Destino non ugualmente giusto per molti personaggi che saranno vittime dello scagnozzo di Dimitri.

È proprio qui che, una trama relativamente tranquilla viene infangata e sporcata da omicidi spietati e gesti criminali, facendo approdare il film da commedia a caper movie: un sottogenere cinematografico tipico dei film thriller.

Nel frattempo Gustave viene arrestato poiché accusato di delitto d’amore. Viene rinchiuso in carcere dove ritorna ad essere evidenziato quell’eccentrico aspetto caricaturale di Gustave che sembra stonare, ma allo stesso tempo smorzare, quell’ambiente angusto. Infatti, proprio in quel luogo così lontano da lui, riesce –  nonostante la sua distanza dai criminali –  a farsi rispettare e ammirare.

Le sbarre e la divisa a strisce però avranno breve durata nella vita di Gustave che – aiutato da Zero e dalla sua giovane amata Agatha – riuscirà con i suoi amici di cella ad evadere dalla prigione, riuscendo così, in fine, a ripulire il suo buon nome. È proprio qui che un ultimo viaggio spazio-temporale ci riporta nuovamente al 1968 quando Zero – ormai un vecchio barbuto - con gli occhi dell’amore e colmi di emozione finisce di raccontare la storia del Grand Budapest Hotel al nostro narratore.

Il sipario si chiude con “Il ragazzo con mela” il cui valore non è dato dal prezzo, ma dal simbolo e dal peso del ricordo che esso porta con sé. Medesimo valore dato al Gran Budapest Hotel che, seppur ormai vecchio e decadente, assume un valore inestimabile per Zero. Questo fa intendere al telespettatore che il valore delle cose non viene attribuito dal prezzo ma da noi.

Grand Budapest Hotel