Il Fotografo
di Jo March
Nel suo laboratorio, il fotografo, seduto in equilibrio sulla sponda di uno sgabello, osservava una serie di vecchie foto. Sul tavolo, una lampada dirigeva una luce intensa sulle immagini ingiallite dal tempo.
Ogni tanto si alzava e, nella penombra della stanza, lontano dal cerchio illuminato dalla lampada, muoveva pochi passi, passandosi una mano sulle guance ispide di barba.
Poi tornava a sedersi sullo sgabello e picchiettava con l’indice ora l’una, ora l’altra foto, cosicché la lampada proiettava sul suo viso ombre diverse. Il compito, che gli era stato affidato, era difficile, contrapposto al fine del suo lavoro ordinario. Sembrava cercare una soluzione, un appiglio che gli consentisse di mettere mano a una mistificazione.
Erano lontani i tempi in cui il suo lavoro di fotografo, lo portava ovunque: testimoniare la realtà era il suo obiettivo. Ora aveva i capelli bianchi e gli occhiali erano diventati una parte di sé. Le sue gambe, che avevano macinato lunghe e pericolose marce in territori di guerra, adesso, si trascinavano all’interno dello studio, attorno ad un tavolo, vecchio e logoro quanto lui.
Rimase seduto a lungo, incerto, prese infine le foto e le mise in fila davanti a sé; nella prima, un uomo alto elegante, dallo sguardo severo, in piedi accanto ad una poltrona, fumava una sigaretta. Una figura d’altri tempi, d’aspetto vigoroso, sui cinquant’anni, aveva barba e baffi curatissimi e ostentava sicurezza e autorità.
La seconda foto mostrava un giovane imbronciato, con aria ribelle, i capelli incolti gli conferivano un aspetto da artista bohèmien. Il contrasto tra le due figure era lampante: l’uomo teneva saldamente le redini, il giovane scalpitava sotto il giogo di quell’autorità che non riconosceva. Due mondi in guerra per la propria affermazione.
Nella terza foto, un adolescente, con ancora i pantaloni corti, esibiva, compiaciuto, una pergamena, forse un diploma o comunque un riconoscimento. Aveva, nella postura, la stessa sicurezza che mostrava l’uomo della prima foto e, in più, nello sguardo, la presunzione della sua superiorità.
Seguiva l’immagine di una ragazza, non ancora donna né più bambina; aveva negli occhi limpidi il baluginio d’un sogno; somigliava alla donna dell’ultima foto e aveva gli stessi capelli d’ebano lucente.
Nell’ultima, una donna matura, seduta in poltrona, con l’abito delle occasioni, i capelli raccolti con cura e un ventaglio in mano, mostrava un sorriso di circostanza, che non riusciva a nascondere la consapevolezza di un fallimento. In ciò era la differenza tra le due donne. Gli occhi della seconda avevano perso la voglia d’inseguire sogni lontani.
Il fotografo distolse lo sguardo dalle immagini. Aprì il cassetto del tavolo e, al suo interno, un paio di forbici d’acciaio, con lunghe lame appuntite, scintillarono. Quelle forbici, che erano servite per distruggere finzioni, ora sarebbero state adoperate per un compito tutt’altro che violento. La loro catarsi era imminente.
Il vecchio prese le forbici e ritagliò le foto; con precisione certosina, ne estrasse solo le figure. Quelle persone, private del loro contesto, gli sembrarono di una solitudine infinita, perse nel vuoto. Poi, ritagliò altri elementi da foto scartate e creò un ambiente da interno giorno: una tenda, una sedia, una grande fioriera; su questo sfondo appoggiò le sue figurine e scattò la foto. Ma che magnifica foto di famiglia ne venne fuori! Davvero magnifica!
Lui, che era vissuto per mostrare con i suoi scatti la realtà, per terribile che fosse, si era prestato a questa mistificazione. Perché?
La sera prima, sul punto di chiudere il suo studio e tornarsene a casa, una donna, dietro la porta a vetri, timidamente, picchiettava per farsi aprire. L’aveva invitata a entrare e lei, un poco titubante, gli aveva mostrato delle vecchie foto. “Sa, – gli disse – sono le foto di mio marito e dei miei figli. Sono le uniche foto che mi sono rimaste di loro. Sono successe tante cose, la guerra, e poi i numerosi traslochi. Ecco, guardi, questo era mio marito, un uomo intransigente, ma giusto. Questo giovane invece è il mio figlio maggiore, un vero poeta, un sognatore, sempre tormentato. Quest’altro è il minore, un piccolo genio, non accettava sconfitte. Lei, mia figlia, era bellissima, sempre pronta a innamorarsi, ma così sprovveduta! Li amavo tutti, ed essi si amavano tra loro, ma erano così diversi”, fece una pausa, quasi per dare forza alle sue vacillanti certezze, “Così si sono allontanati, da me e tra di loro. Ormai sono rimasta sola. Per favore, faccia, di queste persone separate, una famiglia, la mia famiglia”.
Era stato sul punto di respingere la richiesta della donna. Poi l’aveva guardata, lei sorrideva fiduciosa; si chiese: “Realtà oggettiva o illusione, cosa ci permette di sopravvivere ai tagli di un’affilatissima lama di forbice?” Così prese le foto, sorrise anche lui e decise di consentire a quella donna di scampare alla realtà, creando, con uno scatto fotografico, solo per lei, una splendida illusione.